L'abbassamento del salario prende il nome di "deflazione salariale", noi Cobas Lavoro Privato della Whirlpool di Siena abbiamo chiesto quindi al Professor Sergio Cesaratto (Professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica monetaria e fiscale nell'Unione Monetaria Europea) di spiegarcene le cause e gli effetti, di seguito potete leggere l'articolo che gentilmente ha scritto su nostra richiesta.
La deflazione salariale spiegata ai compagni operai della Whirpool (che la conoscono già)
Sergio Cesaratto*
Spiegare
ai compagni della Whirpool cosa significhi deflazione
salariale è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che
loro sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla
propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una volta: in
tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in
Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure
decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). E’ la
globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è
ancor peggio perché il ricatto di spostare la produzione è più
forte.
BOX 1 Deflazione
salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando
su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire
rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari
sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di
conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è
detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere
prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui
mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione
competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi
compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui
oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che
deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza.
Una
prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro,
che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata
in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori
salari se sposta la produzione, lo perde sul piano
della produttività (prodotto per lavoratore). Ma
naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le
produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con
macchinario adeguato la produttività è la medesima. E’ solo
quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non
facilmente trasferibili che ci si difende bene. Ma a quel punto è il
medesimo padrone a non voler trasferire la produzione, che viene anzi
spesso riportata in Italia dove i lavoratori sono più addestrati. Ma
su questo, di nuovo, siete voi che fate scuola a me.
Entro
certi versi, quello che un tempo si chiamava il ciclo del
prodotto è un fatto fisiologico. L’idea è che le
produzioni più innovative svolte nei paesi avanzati col tempo si
standardizzino e vengono trasferite nei paesi più arretrati, essendo
sostituite con nuove produzioni innovative e così via. Un tempo si
riteneva anche che fosse compito dei governi stimolare questi
processi facendo scivolare il paese verso produzioni più
sofisticate, cedendo quelle meno avanzate ai paesi più arretrati.
In
Italia questo upgrading è avvenuto in misura
inferiore agli altri paesi avanzati, e con delle peculiarità. I
punti di forza del Made in Italy sono diventati,
com’è noto, la meccanica, il sistema moda e, ultimamente,
l’agroalimentare. Molto poco per un paese che a fine degli anni
1960 vantava quella che un tempo si chiamava una “matrice
industriale completa”, vale a dire produceva un po’ di tutto, dal
nucleare all’elettromeccanica, dal chiodo al microchip, dal farmaco
alle scarpe.
Purtroppo
l’industria di Stato che concentrava molte di queste competenze è
stata dapprima vittima della spartizione partitica, che l’ha
spogliata delle grandi capacità imprenditoriali maturate dagli anni
1930 sotto la guida dei grandi commis d’Etat antifascisti
che l’avevano presa in mano (comprese le grandi banche). E infine
svenduta a brandelli al settore privato attraverso le
privatizzazioni. Spesso a capitali stranieri che l’hanno acquisita
a saldo dei debiti esteri che l’Italia ha maturato negli anni dello
SME (il sistema monetario europeo) e poi dell’euro, i due sistemi
di cambio fissi a cui il Paese ha in successione aderito dal 1979 e
su cui torneremo. L’eccesso di conflitto sociale a partire dai
primi anni 1960 non ha poi certo favorito una
evoluzione positiva della grande impresa italiana, la quale si è
invece ritratta sino quasi a scomparire. Perché la Ignis, o la
Rex-Zanussi non sono diventate una Samsung o, almeno, una Bosch?
Perché tanti brand dei Caroselli di quand’eravamo
bambini (o almeno io lo ero) sono spariti?
Mentre
altri Paesi come la Corea del Sud o Taiwan si incamminavano verso
produzioni di massa avanzate, il nostro si smarriva nel conflitto
sociale. Ma vale la pena chiedersi di chi è la responsabilità di
una conflittualità spesso esacerbata. Mentre ulteriore lavoro
storico sarebbe necessario, non si è lontani dalla verità se la si
attribuisce a una borghesia incapace da sempre a venire incontro alle
istanze sociali delle grandi masse popolari. Dai cannoni di Bava
Beccaris, al fascismo, alla “stretta monetaria” e prime minacce
golpiste del 1963, alla strategia della tensione, sino a Berlusconi
(e al suo epigono Renzi), e infine con l’euro, la borghesia
italiana ha sempre reagito alla domanda di giustizia negando
legittimità alle istanze sociali, timorosa di perdere i propri
privilegi, al massimo corrompendo masse con il clientelismo diffuso e
le elemosine - dai pacchi di pasta di Lauro agli ottanta euro di
Renzi. E’ al principio degli anni 1960 che si compie la scelta
decisiva: il Paese era cresciuto, le premesse economiche per una vera
modernizzazione del Paese c’erano, una borghesia capace di guidarla
no. Alla difesa dei settori nazionali moderni (l’elettronica di
Olivetti, il nucleare di Ippolito, il petrolio di Mattei), e a una
riposta in positivo alle istanze di giustizia sociale del primo
ciclo di lotte operaie, si sostituì la svendita di quei settori
al capitale straniero, la stretta monetaria, e lo sfruttamento
selvaggio della forza lavoro, senza riforme sociali. Il secondo
ciclo di lotte operaie dal 1969 fu la risposta dei
lavoratori. Molto si ottenne, altrettanto lo si sta ora restituendo.
Negli
anni 1970 il Paese continuò comunque a crescere,
con il conflitto spesso moderato attraverso l’impiego non sempre
appropriato della finanza pubblica e l’utilizzo del cambio
(svalutazione della lira) per compensare la maggiore inflazione
interna. Le istanze progressive delle lotte operaio e studentesche
furono molto, solo molto parzialmente guidate dalla sinistra verso un
riformismo forte, ostacolate in questo dalla borghesia golpista, in
un clima reso più cupo da un estremismo diventato col tempo
violento. L’aumento del prezzo del petrolio, per cui anche i Paesi
petroliferi ambirono a una fetta maggiore della torta, fu
un’ulteriore elemento esacerbante del conflitto.
BOX 2 Il
conflitto distributivo fra lavoratori e capitalisti genera
inflazione, la famosa spirale prezzi-salari. I Paesi produttori di
petrolio e materie prime possono costituire il terzo incomodo. Una
inflazione interna maggiore dei concorrenti (per esempio di Germania
e Francia) porta a una perdita di competitività. In termini
semplici: i nostri prodotti cominciano a costare più dei loro.
Una svalutazione della nostra moneta, quando ce
l’avevamo, aumentava il potere d’acquisto degli stranieri: coi
marchi un tedesco comprava più beni prezzati in lire. Allora la
svalutazione, accrescendo il potere d’acquisto degli stranieri,
compensava l’aumento dei prezzi in lire dei nostri prodotti.
Certo, con una lira deprezzata, diminuiva il potere d’acquisto di
merci estere per i lavoratori italiani. Ma né questo, né
l’inflazione interna erano sufficienti a annullare l’aumento dei
salari reali ottenuto con le lotte.
La
svolta avvenne alla fine degli anni 1970 quando, superato l’apice
del terrorismo, il Paese allineò le proprie politiche alla nuova
ventata monetarista che si andava affermando in Europa e negli Stati
Uniti. In questi ultimi, muore con Carter l’ultimo rigurgito
keynesiano. L’adesione al sistema europeo di cambi fissi, lo SME
(sistema monetario europeo), fu il segnale ai sindacati che la
politica economica non avrebbe più accomodato il conflitto sulla
distribuzione del reddito attraverso il tasso di cambio. Il
meccanismo è spiegato nel BOX 2: il conflitto salariale genera
inflazione; quest’ultima fa perdere competitività al paese, per la
ragione banale che i prezzi delle merci che produce aumentano più
che all’estero; il deprezzamento del cambio fa recuperare la
competitività. Abilmente, per gran parte degli anni 1970 l’Italia
aveva cercato di svalutare rispetto al marco, preservando la
competitività nel mercato tedesco che è il nostro più importante,
mantenendo invece stabile il cambio col dollaro (avvalendosi del
contestuale indebolimento di quest’ultimo nei confronti del marco),
sì da mantenere invariato il prezzo delle importazioni petrolifere
(fatti salvi gli aumenti decisi dai produttori). In tutto questo i
dati mostrano che i salari reali riuscivano a crescere – la
deflazione e non l’inflazione è nemica dei salari. Tanto più che
la produttività del lavoro continuava a crescere, guidata dalla
domanda interna ed estera.
BOX 3 “tassi
di inflazione relativamente sostenuti sono spesso associati a tassi
di disoccupazione contenuti e quindi a posizioni di forza dei
lavoratori nelle contrattazioni sindacali, a beneficio del
mantenimento della crescita dei salari reali, e della quota dei
salari sul prodotto. Il processo di disinflazione [successivamente]
compiuto …ha eroso (via disoccupazione) le posizioni contrattuali
dei lavoratori, favorendo lo smantellamento dei presidi del loro
potere d’acquisto (meccanismi di indicizzazione del salario) e
quindi, inevitabilmente, riducendo la quota dei salari sul
prodotto.” A.Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur,
2012).
Certo,
di meglio si poteva fare: più giustizia distributiva e fiscale
avrebbero potuto moderare il conflitto, ciò che avrebbe però
richiesto una borghesia lungimirante; un più rapido adeguamento
dell’imposizione fiscale e la lotta all’evasione, a fronte di una
spesa sociale che finalmente cominciava ad adeguarsi agli standard
europei avrebbe impedito l’esplodere del debito pubblico, la cui
concausa furono gli alti tassi di interesse conseguenza dello SME.
Per chiarire quest’ultimo punto: nel corso degli anni 1980,
con i cambi fissi e un’inflazione in discesa, ma pur sempre più
alta della Germania, il nostro Paese si trovò con forti disavanzi
esteri. Non potendo infatti più svalutare adeguatamente per
compensare la più elevata inflazione, la competitività del Paese ne
soffrì. Questo implicò indebitamento verso l’estero a tassi di
interessi crescenti (gli stranieri investivano sì in titoli
italiani, ma per coprirsi dal rischio di svalutazione della lira
chiedevano tassi assai onerosi). Con l’uscita (temporanea) dallo
SME nel 1992, la svalutazione e la ripresa delle esportazioni
consentì al Paese di riaggiustare i conti esteri e restituire il
debito estero.
Dagli
anni 1990 la globalizzazione di
capitale e lavoro si fa più massiccia. Questa va intesa come un
imponente movimento del capitalismo verso l’estensione su scala
globale dell’esercito industriale di riserva (la sacca
di disoccupati che serve a calmierare i salari, il termine è di
Marx). Da un lato gli impianti si spostano verso paesi dove il costo
del lavoro è più basso, dall’altro i fenomeni
migratori portano all’interno dei paesi industrializzati
la concorrenza della forza-lavoro a basso costo. La pressione su
salari e diritti si fa tremenda. Al contempo il rafforzamento delle
grandi istituzioni internazionali come il WTO (oggi il TTIP) è volto
a smantellare i poteri degli Stati sovrani, sì da depotenziare la
linea di difesa dei diritti costituito dalle istituzioni democratiche
nazionali. Il rafforzamento delle istituzioni europee culminato nella
creazione della moneta unica si iscrive in questo quadro.
L’euro
è la sanzione della strategia della deflazione salariale.
L’ideologia che guida l’Italia ad aderire alla moneta unica è
quella del “legarsi le mani”, come fu definita da
due sciagurati economisti (Francesco
Giavazzi e Marco Pagano): cancellata definitivamente la possibilità
di aggiustare il cambio, l’unica via per mantenere i posto di
lavoro è la deflazione salariale. Naturalmente questo non viene
detto esplicitamente: si dice che l’euro imporrà di effettuare le
riforme che il Paese da lungo attende (leggi la riforma del mercato
del lavoro culminata nel Jobs Act).
Il
BOX 1 illustrava come, tuttavia, se tutti i paesi adottano la
deflazione competitiva, questo è un gioco a somma zero, se vince uno
perde l’altro e dunque il paese che fa più deflazione salariale
spiazza gli altri in un suicida gioco al ribasso. E il paese più
bravo a farla è stata la Germania che, con le riforme del mercato
del lavoro del socialdemocratico Schroeder, spiazzò tutti nel 2003.
Alla deflazione salariale la Germania affiancò la sua tradizionale
forza produttiva sostenuta da un poderoso apparato statale
pro-business (ricerca, ottima formazione a ogni livello, apparato
pubblico e politica estera sostegni delle esportazioni ecc.), quello
che si chiama Stato mercantilista insomma. Pur con
un’inflazione ridotta al lumicino, il nostro Paese si vede di nuovo
spiazzato dal temuto concorrente, ed è allora che il discorso sul
declino italiano si fa più pressante. Oggi la Spagna è portata ad
esempio di successo della deflazione salariale: vedete, si dice, come
tempestive riforme del mercato del lavoro (leggi smantellamento dei
diritti sindacali e condizioni di lavoro massacranti) portano alla
ripresa del Pil? Non ci si rende conto che in Europa questo, alla
lunga, non è neppure un gioco a somma zero, in cui almeno uno vince,
ma è un gioco al massacro collettivo: il vincitore si ergerà alla
fine sulle rovine dei concorrenti, e sulle proprie. Non esattamente
un successo.
Qual
è l’alternativa? Quella più ragionevole sarebbe di politiche
europee espansive concertate fra i diversi paesi, con la Germania a
fare da traino espandendo il proprio mercato interno attraverso un
cospicuo aumento di salari e spesa pubblica. Dunque l’abbandono
della deflazione salariale innanzitutto da parte del paese leader. Ma
ciò non accadrà. La Germania non abbandonerà mai il
proprio modello mercantilista (vendere agli altri e
non comprare). Questo paese costituirebbe comunque un problema anche
se l’euro crollasse.
In
questo quadro scoraggiante, non sono in grado di dare suggerimenti ai
compagni della Whirpool su quale strategia sindacale adottare a
livello locale. Sindacati ed enti locali dovrebbero forse costringere
l’azienda ad impegnarsi in politiche dell’innovazione, in
collaborazione per esempio con le università toscane, per
individuare nuovi prodotti di alta gamma, anche puntando sulla
formazione del personale. Ma sono solo idee, come noto, chi sa fa,
chi non sa insegna. A livello nazionale si tratta ovviamente di
combattere le politiche di austerità che sono anch’esse parte
della deflazione salariale in quanto mirano ad abbattere il salario
indiretto, quello consistente di erogazioni sociali (pensioni,
sanità, istruzione, assistenza sociale). Queste politiche hanno
distrutto il mercato interno portando a una
drammatica perdita di capacità produttiva. Va inoltre accresciuta la
consapevolezza che l’Europa, monetaria e non, è lo strumento della
deflazione salariale (ce lo chiede l’Europa), e poco conta
il contentino che ci viene dato sul terreno dei diritti civili, che
funge da specchietto per le allodole.
BOX 4 La
deflazione salariale come strategia del capitalismo nazionale ha
l’obiettivo di catturare i famosi due piccioni con una fava: i
bassi salari tengono alti i profitti, e allo stesso tempo consentono
di vendere l’eccedenza del prodotto all’estero. Così,
nonostante i bassi consumi interni dovuti ai bassi salari, non c’è
un problema di mercato. La questione è che se fan tutti così, come
s’è visto, la strategia diventa un gioco al ribasso rovinoso per
tutti.
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Dipartimento di Economia politica e statistica, Università di
Siena, Cesaratto@unisi.it
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